La Portatrice d’Acqua
Il titolo del racconto è La portatrice d’acqua.
Questa prefazione è brevissima perché ritengo che deve essere il contenuto del libro, le emozioni che promana, a presentare il libro stesso, senza la presunzione di spiegare ai lettori cosa devono capire, visto che ognuno vede i personaggi e la storia che legge per mezzo della propria immaginazione.
In una mattina di primavera, arredata con la nebbia che proviene dal mare, nel caffè turco più antico del mediterraneo (ad eccezione ovviamente di quelli ubicati in Turchia) che si trova nella Kasba Iasari di Tunisi, un caro amico mi ha raccontato la storia di sua moglie, alla quale naturalmente ho dato il nome fittizio di Fadìa, che è originaria del Darfur, una regione del Sudan grande quanto la Francia, ubicata a Nord/Est, al confine con il Ciad.
Con il suo permesso e quello della donna, ho narrato dei fatti personali vissuti in quella porzione d’ Africa, per evidenziare quanto sia difficile la situazione delle donne sulle cui spalle è fondata la struttura sociale dei villaggi (e vi assicuro che la mia non è retorica considerato che sono proprio esse a procurare l’acqua, a coltivare i campi, a provvedere all’organizzazione della famiglia). Gli uomini hanno nei riguardi delle loro compagne un atteggiamento duro che spesso trascende nella violenza, perché non vogliono che si affermino socialmente, sostituendoli con successo in quei campi dove essi hanno fallito.
Questo racconto narra una storia nella storia e cioè del modo in cui le donne africane debbano combattere, non solo contro le milizie arabe che vengono inviate dal Governo del Sudan per sterminare i neri non musulmani, ma anche contro i loro mariti che sono arrivati addirittura ad unirsi con i nemici della loro Patria, pur di non riconoscere il ruolo spetta ad esse.
Per superare queste difficoltà, le donne si aggrappano fortemente ai loro sogni e fanno di tutto per realizzarli e volare in alto (Non abbiamo mai pensato che una donna stanca e sudata possa coltivare degli ideali, vero ? ).
Quando non ci riescono sono disposte anche a morire perché si sono stancate di essere solo degli animali da soma, sanno che la loro storia personale non verrà mai letta durante un telegiornale e non saliranno mai agli onori della cronaca, ma si trasformano lo stesso in valorose leonesse che decidono di non portare tutta la cacciagione ai leoni, ma di conservarne una parte e gestirla per il benessere dei loro figli ai quali desiderano dare un futuro più bello, come nel caso di Fadìa, la nostra protagonista, la cui famiglia ribellandosi agli usi locali, è riuscita nell’intento di provocare una vera e propria secessione che ha formato un nuovo grande villaggio abitato esclusivamente da persone che condividono idee innovative, compresa quella che rifiuta l’infibulazione che impedisce alle donne di vivere pienamente la loro sessualità inibendo il piacere e l’orgasmo.
Mi dispiace di non aver potuto usare la lingua araba o il dialetto berbero per raccontare la vicenda, perché le sensazioni forti che la gente africana prova si possono meglio esprimere con gli idiomi locali i cui termini non hanno una vera e propria traduzione nelle lingue occidentali, ho cercato comunque di fare del mio meglio.
Carlo Maria Vito Giuseppe PACIMEO