Un transessuale sadico che cerca di trovare un senso alla propria esistenza attraverso la propria
e altrui sofferenza.
“Più dolore proverò, più avrò da vivere. Solo spingendo la soglia di sopportazione dei miei tormenti sempre oltre, potrò augurarmi di essere immortale. Se mi rimane ancora qualcosa per cui soffrire, a questo mondo, di sicuro non mi farò annientare da tutto il resto.
Il fatto è che io ci ho provato. Ci ho provato per davvero. Ma non ho trovato null’altro. Qualcosa che vada oltre l’angoscia. Qualcosa in più del supplizio. La vita finisce lì dove finisce il dolore. Fine. Dissolvenza. Non ha senso sperare in altro. Continuare a illudersi.
Il dolore è l’unica dimensione possibile. È l’unico stato pensabile. È la sola cosa sensata. Reale.
La verità è che il dolore è tutto. Il dolore è la vita stessa e senza di esso noi cessiamo di esistere.
Tra poco il campanello suonerà, l’ennesimo, sprovveduto, errore della natura mi seguirà, inconsapevole, nella mia stanza da letto e la scena si ripeterà. Il dolore si libererà.
Di nuovo…”
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Necrophylia è un romanzo, duro, forte, cinico che farà traballare il lettore e lo lascerà nudo di fronte a se stesso, indifeso.
Protagonista è un ragazzo qualunque, infermiere in un obitorio. Senza un nome, senza un’identità ben definita potrebbe essere chiunque di noi. La sua perversione è, come si intuiva, quella del titolo.
Gli fa da contorno la figura della canuta nonnina, una pluriottantenne con un debito infinito con la vita che adotta metodi a dir poco strampalati per affermare la propria esistenza. Due vite al limite eppure così dannatamente vicine a quello che tutti gli uomini si portano dentro.
Questa due caricature viventi, questi due scarabocchi esistenziali sono le figure principali attraverso le quali si snodano le vicende del romanzo. Un romanzo che ci vuole mostrare la reale vacuità delle nostre vite, l’insensatezza delle nostre azioni, l’inutilità dei nostri sforzi. Con un linguaggio secco, diretto, le pagine, una dietro l’altra, ci calano nell’incubo di una vita che, seppur continuamente rinnegata, continuamente odiata, non si ha mai il coraggio di rigettare completamente.
In una dimensione così cupa e senza scampo la morte sembra essere l’unico riparo, l’unica consolazione alle brutture che, ogni giorno, siamo costretti a subire.
I protagonisti e tutti i personaggi che fanno da contorno sembrano intrappolati, continuamente tirati verso il basso, in una morsa che trova l’unico sbocco nella negazione di sé e dell’altro da sé.
La parte centrale del romanzo metterà in discussione tutto. Le prospettive muteranno, il romanzo, che fino a quel momento suonava come un requiem, una marcia funebre, sembrerà intonare le note di un inno alla vita, eppure…
Il senso del grottesco permea queste pagine dall’inizio alla fine, la realtà è sempre sformata e nebulosa, i visi sono sempre indistinti e sfregiati. La vita e il dolore, la morte e la paura, Dio e l’uomo, la speranza e la consapevolezza.
Un romanzo sporco, cattivo che, senza lesinare sulle immagini forti, con la sua dose sempre alta di cinismo riesce ad essere, allo stesso tempo, dolce e malinconico.
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